Oggi si parla molto spesso di
economia circolare e di quanto i suoi concetti dovrebbero essere applicati dalle aziende di ogni settore. In questo però si sottovalutano due aspetti che invece sono molto importanti, dal punto di vista delle imprese. Il primo è che
ragionare in termini di circular economy non significa cambiare pochi processi puntuali ma rivedere, in modo esteso ed articolato, una buona parte della propria supply chain. Il secondo aspetto è che di norma l'economia circolare, almeno a breve termine,
introduce maggiori costi a fronte di vantaggi "esterni" che sono positivi per l'ambiente e l'immagine aziendale ma che possono anche non piacere agli azionisti.
In realtà non sono tanti gli esempi di grandi società che possono adottare concretamente principi di economia circolare ed
averne anche un vantaggio diretto immediato. Abbiamo approfondito uno dei pochi casi del genere già in atto su scala globale: coinvolge
HPE e le attività che l'azienda ha messo in atto per
il riuso e il riciclo dei prodotti IT che commercializza. Si va dai server alle unità di storage passando per tutta la componentistica ed anche, in parte, per dispositivi non venduti espressamente da HPE.
In generale, introdurre elementi di economia circolare
nella supply chain dell'IT ha una valenza particolarmente importante, come è facile immaginare. Le stime delle Nazioni Unite e dell'OECD indicano che nel 2018 sono state prodotte circa
50 milioni di tonnellate di e-waste, termine che raccoglie tutti i rifiuti elettrici ed elettronici. In sintesi, qualunque cosa abbia una spina elettrica o una batteria e che oggi nell'80 percento dei casi, a livello globale, finisce nelle discariche senza essere trattato
come dovrebbe. Per dare una prospettiva, a questo ritmo nel 2021 produrremo 52 milioni di tonnellate di e-waste, nel 2050 ben 120 milioni.
Un brutto affare per l'ambiente ma anche per l'economia. Ad esempio, si stima che
il 7 percento di tutto l'oro mondiale sia nell'e-waste, quindi di fatto nella spazzatura. Vale lo stesso per una lunga serie di metalli preziosi che sarebbe invece utile e redditizio recuperare. Tanto che esiste una
economia sommersa del riciclo "informale", portato avanti con metodi quasi artigianali e dannosi per l'ambiente e la salute. Un settore illegale che nelle nazioni di destinazione dell'e-waste impiega centinaia di migliaia di persone. Solo in Cina, che è il "mercato" di maggiori dimensioni, quasi 700 mila.
Cosa fa HPE
Partendo anche da questi presupposti - e ben sapendo che il numero di dispositivi IT venduti, installati e ad un certo punto scartati non farà che aumentare -
HPE ha messo in atto diversi programmi che estendono il più possibile il ciclo di vita dei device. Per questo ha realizzato due grandi centri - i
Technology Renewal Center di Erskine in Scozia e di Andover in Massachusetts - dove ricevere e trattare i prodotti che i clienti considerano a fine vita.
Questo è possibile anche perché - spiega
Luca Nanni, Country HPE FS manager, Hewlett Packard Enterprise - attraverso la business unit
Financial Services HPE riesce ad avere una visione ed un controllo trasversali di tutto il ciclo di vita dei prodotti commercializzati e poi ritirati. Conta anche il fatto di aver potuto trasformare in centri di "rinnovamento tecnologico" quelle che in precedenza erano due fabbriche produttive. Grazie a questa precedente natura,
i centri hanno avuto sin da subito le capacità ingegneristiche e logistiche per portare avanti un programma globale di ricondizionamento e smaltimento.
I prodotti che entrano nei centri di Erskine e Andover sono stati ritirati da HPE, il che richiede
un certo impegno finanziario per il riacquisto o il ritiro a fine leasing. I prodotti vengono esaminati, sottoposti a varie procedure "di servizio" (come la cancellazione completa dei dati) e, se possibile, revisionati, ricondizionati e imballati per una successiva vita commerciale certificata da HPE. L'azienda ha realizzato un
centro di remarketing che alloca i prodotti riutilizzabili. Ne genera una quotazione commerciale e individua rapidamente dove rivenderli, ovviamente in mercati diversi da quello di origine per non entrare in concorrenza con il proprio canale.
I prodotti che hanno davvero raggiunto la fine della loro vita operativa vengono invece correttamente smaltiti,
riciclandone la maggiore quantità possibile di componenti e materiali. Va anche ricordato che, parallelamente, HPE Financial Services ha in atto alcuni servizi che non sono propriamente di economia circolare ma che comunque
allungano il ciclo di vita dei prodotti. Un esempio è mantenere a magazzino prodotti che sono formalmente fuori produzione ma che possono interessare le imprese che possiedono ancora sistemi legacy. Questi possono essere usati ancora, e non dismessi, grazie proprio alle scorte di HPE.
Un beneficio per tutti
Idealmente l'economia circolare messa in atto da HPE è aperta a tutti i suoi clienti. All'atto pratico coinvolge prevalentemente, spiega Luca Nanni, "
le aziende medio-grandi, che sono più allineate ai principi di sostenibilità". E che possono sfruttare una opzione in più: il
Circular Economy Report con cui HPE certifica quanto le azioni messe in atto per i prodotti ritirati da uno specifico cliente abbiano ridotto l’impatto ambientale di quest’ultimo. Per molte imprese è infatti un beneficio
avere una attestazione indipendente di quanto è stato fatto in termini di riuso, riciclo e smaltimento.
È un altro dettaglio che testimonia come nell'introdurre elementi di circular economy
si debba avere una visione particolarmente ampia, non incentrata solo sui processi più pratici. In questo caso l'economia circolare diventa un servizio reso ai clienti, ed anche per questo i programmi messi in atto da HPE portano, sottolinea Nanni "
una marginalità, magari bassa direttamente ma elevata indirettamente".
È davvero tutto così (apparentemente) semplice? Purtroppo no.
HPE è comunque un caso particolare perché coinvolge un'azienda che riesce a mettere in campo diverse capacità:
finanziarie per il riacquisto dei prodotti a fine vita,
logistiche per una supply chain inversa a livello globale,
tecnologiche per ricondizionarli e/o smaltirli, commerciali per riuscire a vendere rapidamente ciò che può tornare sul mercato. È quindi un caso non immediatamente replicabile per chiunque. Ma che può fare scuola.
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