Fissare un prezzo sulle
emissioni di carbonio è un modo per ridurre le emissioni di gas serra e il riscaldamento globale, quindi sempre più nazioni adotteranno questa strada per accelerare la loro corsa verso l'obiettivo di diventare "
net zero" nei prossimi anni. Lo sostengono le analisi di
S&P, che però avverte: la gestione delle politiche governative che riguardano questo tema è ancora
molto poco omogenea tra le varie nazioni. Il che, insieme all'attuale condizione geopolitica globale, ne riduce l'efficacia.
Molti economisti -
sottolinea S&P - sostengono che le politiche di carbon pricing siano una delle leve politiche più efficaci per incoraggiare la riduzione delle emissioni di gas serra. Attualmente però
sono in vigore relativamente poche normative sul prezzo del carbonio, che coprono meno di un quinto (
solo il 17%, per la precisione) delle emissioni globali di gas serra. I mercati di carbonio più grandi per estensione delle emissioni si trovano nell'UE e in Cina, mentre altri riguardano, tra gli altri, il Regno Unito, Canada, alcuni Stati degli USA e l'Asia.
Ma il carbon pricing
funziona davvero? Ovviamente dipende dai costi attribuiti alle emissioni, costi che variano nel tempo. S&P prende come esempio l'Unione Europea, che nel 2005 si è data una delle politiche di carbon pricing più solide attraverso l'ETS (Emissions Trading System).
Il prezzo del carbonio nell'UE è oggi di circa
80 euro/tCO2e, sostenuto dal pacchetto ambientale Fit for 55 e dalla spinta generata dal conflitto Russia-Ucraina e dalla relativa crisi energetica. S&P prevede che il prezzo delle quote di carbonio dell'UE
supererà i 100 euro/tCO2e a partire dal 2025, man mano che l'UE accelererà la sua transizione verso l'azzeramento delle emissioni.
Questo prezzo
è ancora basso, secondo le considerazioni di S&P. E infatti gli analisti sottolineano che nessun "carbon market" attivato sinora ha mai portato a una riduzione delle emissioni che fosse in linea con le ambizioni espresse dalle nazioni coinvolte.
Chi paga davvero la carbon tax
Secondo l'OCSE, per arrivare a Net Zero nel 2050 servirà che entro il 2030 il prezzo del carbonio arrivi a
120 euro/tCO2e. Difficile affermare che ciò accadrà certamente, anche perché molte nazioni hanno
protetto i comparti produttivi
carbon-intensive (servizi pubblici,
materiali, energia,
trasporti) concedendo una quota di emissioni "gratuite", per non ridurre troppo la loro competitività a livello globale.
Il problema è appunto che
la corsa a Net Zero si paga in punti di PIL. Quanti? S&P ha simulato uno scenario in cui entro il 2030 il prezzo del carbonio sia - nella UE, negli Stati Uniti e in Cina - in tutti i casi di 100 dollari/tCO2e, per qualsiasi azienda. Questo porterebbe, si stima, un calo del PIL dell'8% in Cina, del 3% negli USA e del 2% nell'Unione Europea.
Sono percentuali che impongono attente considerazioni politiche ed economiche, anche perché a pagare questa perdita di PIL sarebbero soprattutto
le parti più deboli della società e del tessuto produttivo. Quelle cioè che già spendono una quota importante delle loro entrate per l'energia e che hanno meno risorse da investire per
efficientamenti energetici. Va tra l'altro considerato che le aziende con maggiore forza di mercato non fanno altro che "passare" i costi delle carbon tax ai loro clienti, aggravando la situazione.
Insomma, il carbon pricing è un sistema che ha diversi punti deboli. Ma sembra il più efficace che abbiamo a disposizione,
a patto di usarlo bene. Per questo S&P ritiene che questo approccio si diffonderà ulteriormente in varie aree del mondo, anche se non in maniera omogenea e con politiche di pricing anche sensibilmente diverse fra loro.
In Unione Europea, ad esempio, si sta lavorando per ottimizzare il sistema ETS
eliminando del tutto le quote gratuite (ma gradualmente, del 2027 al 2032) e per introdurre una
carbon tax sui prodotti importati nella UE (è il cosiddetto Carbon Border Adjustment Mechanism). Proprio questa tassazione aggiuntiva potrebbe dare una ulteriore spinta al carbon pricing fuori dall'Unione.
Segnali positivi, certo, ma S&P ricorda anche che gli ulteriori sviluppi del conflitto tra Russia e Ucraina
avranno un impatto sulle emissioni del settore energetico dell'UE. Gli Stati membri cercheranno probabilmente di ampliare la capacità di produzione a carbone e le importazioni di GNL, più inquinanti, per soddisfare la domanda a breve termine, in risposta alle potenziali restrizioni delle importazioni di petrolio e gas dalla Russia.